ORIENTALE LUMEN
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
PER LA RICORRENZA CENTENARIA DELLA ORIENTALIUM DIGNITAS
DI PAPA LEONE XIII
Venerati Fratelli,
Carissimi Figli e Figlie della Chiesa
1. La luce dell'Oriente ha illuminato la Chiesa universale, sin da quando è apparso su di noi «un sole che sorge» (Lc 1,78), Gesù Cristo, nostro Signore, che tutti i cristiani invocano quale Redentore dell'uomo e speranza del mondo.
Quella luce ispirava al mio Predecessore Papa Leone XIII la Lettera
Apostolica Orientalium Dignitas con la quale egli volle difendere il
significato delle tradizioni orientali per tutta la Chiesa [cfr. Leonis
XIII Acta, 14 (1894), 358-370. Il Pontefice richiama la stima e l'aiuto
concreto che la Santa Sede ha riservato alle Chiese Orientali e la
volontà di tutelarne le specificità; inoltre Lett. ap.Praeclara
gratulationis (20 giugno 1894), 1.c.,195-214; Lett. enc. Christi nomen
(24 dicembre 1894), 1.c., 405-409].
Ricorrendo il centenario di quell'avvenimento e delle iniziative
contemporanee con le quali questo Pontefice intendeva favorire la
ricomposizione dell'unità con tutti i cristiani d'Oriente, ho voluto che
un appello simile, arricchito dalle tante esperienze di conoscenza e
d'incontro realizzatesi in quest'ultimo secolo, fosse rivolto alla
Chiesa cattolica.
Poiché infatti crediamo che la venerabile e antica tradizione delle
Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di
Cristo, la prima necessità per i cattolici e di conoscerla per potersene
nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo
dell'unità.
I nostri fratelli orientali cattolici sono ben coscienti di essere i
portatori viventi, insieme con i fratelli ortodossi, di questa
tradizione. E necessario che anche i figli della Chiesa cattolica di
tradizione latina possano conoscere in pienezza questo tesoro e sentire
così, insieme con il Papa, la passione perché sia restituita alla Chiesa
e al mondo la piena manifestazione della cattolicità della Chiesa,
espressa non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità
contro l'altra; e perché anche a noi tutti sia concesso di gustare in
pieno quel patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa
universale [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali
Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, I; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17] che si conserva e cresce nella vita delle Chiese d'Oriente come in quelle d'Occidente.
2. Il mio sguardo si rivolge all'Orientale Lumen che risplende da Gerusalemme (cfr. Is 60,1; Ap 21,10), la città nella quale il Verbo di Dio, fatto uomo per la nostra salvezza, ebreo «nato dalla stirpe di Davide» (Rm 1,3; 2Tm
2,8), morì e fu risuscitato. In quella città santa, mentre si compiva
il giorno di Pentecoste e «si trovavano tutti insieme nello stesso
luogo» (At 2,1), lo Spirito Paraclito fu inviato su Maria e i
discepoli. Di lì il Buon Annuncio si irradiò nel mondo perché, ripieni
dello Spirito Santo, «annunziavano la Parola di Dio con franchezza» (At
4,31). Di lì dalla madre di tutte le Chiese [S. Agostino, al riguardo,
osserva: «Da dove la Chiesa ha avuto inizio? Da Gerusalemme», In
Epistulam Ioannis, II, 2: PL 35,1990] il Vangelo fu predicato a tutte le
nazioni, molte delle quali si gloriano di aver avuto in uno degli
apostoli il primo testimone del Signore [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 23; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14]. In quella città le culture e le tradizioni più varie ebbero ospitalità nel nome dell'unico Dio (cfr. At
2,9-11). Nel volgerci ad essa con nostalgia e gratitudine ritroviamo la
forza e l'entusiasmo per intensificare la ricerca dell'armonia in
quell'autenticità e pluriformità che rimane l'ideale della Chiesa [cfr.
Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 4].
3. Un Papa, figlio di un popolo slavo, sente particolarmente nel
cuore il richiamo di quei popoli verso i quali si volsero i due santi
fratelli Cirillo e Metodio, esempio glorioso di apostoli dell'unità che
seppero annunziare Cristo nella ricerca della comunione tra Oriente ed
Occidente, pur tra le difficoltà che già talvolta contrapponevano i due
mondi. Più volte mi sono soffermato sull'esempio del loro operato [cfr.
Lett. ap. Egregiae virtutis (31 dicembre 1980): AAS 73 (1981), 258-262;
Lett. enc. Slavorum Apostoli (2 giugno 1985), 12-14: AAS 77 (1985), 792-796], anche rivolgendomi a quanti ne sono i figli nella fede e nella cultura.
Queste considerazioni vogliono ora allargarsi per abbracciare tutte
le Chiese orientali, nella varietà delle loro diverse tradizioni. Ai
fratelli delle Chiese d'Oriente va il mio pensiero, nel desiderio di
ricercare insieme la forza di una risposta agli interrogativi che l'uomo
oggi si pone, ad ogni latitudine del mondo. Al loro patrimonio di fede e
di vita intendo rivolgermi, nella coscienza che il cammino dell'unità
non può conoscere ripensamenti ma è irreversibile come l'appello del
Signore all'unità. «Carissimi, abbiamo questo compito comune, dobbiamo
dire insieme fra Oriente e Occidente: Ne evacuetur Crux! (cfr. 1Cor
1,17). Non sia svuotata la Croce di Cristo, perché se si svuota la
Croce di Cristo, l'uomo non ha più radici, non ha più prospettive: è
distrutto! Questo è il grido alla fine del secolo ventesimo. E il grido
di Roma, il grido di Costantinopoli, il grido di Mosca. E il grido di
tutta la cristianità: delle Americhe, dell'Africa, dell'Asia, di tutti. E
il grido della nuova evangelizzazione» [Discorso dopo la Via Crucis del
Venerdi Santo (1° aprile 1994), 3: AAS 87 (1995), 88].
Alle Chiese d'Oriente si dirige il mio pensiero, come numerosi altri
Papi fecero nel passato, sentendo rivolto anzitutto a sé il mandato di
mantenere l'unità della Chiesa e di cercare instancabilmente l'unione
dei cristiani dove fosse stata lacerata. Un legame particolarmente
stretto già ci unisce. Abbiamo in comune quasi tutto [cfr. Conc. Ecum.
Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14-18]; e abbiamo in comune soprattutto l'anelito sincero all'unità.
4. Giunge a tutte le Chiese, d'Oriente e d'Occidente, il grido degli
uomini d'oggi che chiedono un senso per la loro vita. Noi vi percepiamo
l'invocazione di chi cerca il Padre dimenticato e perduto (cfr. Lc 15,18-20; Gv 14,8). Le donne e gli uomini di oggi ci chiedono di indicare loro Cristo, che conosce il Padre e ce lo ha rivelato (cfr. Gv
8,55; 14,8-11). Lasciandoci interpellare dalle domande del mondo,
ascoltandole con umiltà e tenerezza, in piena solidarietà con chi le
esprime, noi siamo chiamati a mostrare con parole e gesti di oggi le
immense ricchezze che le nostre Chiese conservano nei forzieri delle
loro tradizioni. Impariamo dal Signore stesso che lungo il cammino si
fermava tra la gente, l'ascoltava, si commuoveva quando li vedeva «come
pecore senza pastore» (Mt 9,36; cfr. Mc 6,34). Da lui
dobbiamo apprendere quello sguardo d'amore con il quale riconciliava gli
uomini con il Padre e con se stessi, comunicando loro quella forza che
sola è in grado di sanare tutto l'uomo.
Di fronte a questo appello le Chiese d'Oriente e di Occidente sono
chiamate a concentrarsi sull'essenziale: «Non possiamo presentarci
davanti a Cristo, Signore della storia, così divisi come ci siamo
purtroppo ritrovati nel corso del secondo millennio. Queste divisioni
devono cedere il passo al riavvicinamento e alla concordia; debbono
essere rimarginate le ferite sul cammino dell'unità dei cristiani»
[Discorso al Concistoro straordinario, 13 giugno 1994].
Al di là delle nostre fragilità dobbiamo volgerci a Lui, unico
Maestro, partecipando alla sua morte, in modo da purificarci da quel
geloso attaccamento ai sentimenti e alle memorie non delle grandi cose
che Dio ha fatto per noi, ma delle vicende umane di un passato che pesa
ancora fortemente sui nostri cuori. Lo Spirito renda limpido il nostro
sguardo, perché insieme possiamo camminare verso l'uomo contemporaneo
che attende il lieto annuncio. Se di fronte alle attese e alle
sofferenze del mondo daremo una risposta concorde, illuminante,
vivificante, contribuiremo davvero a un annuncio più efficace del
Vangelo tra gli uomini del nostro tempo.
I
CONOSCERE L'ORIENTE CRISTIANO
UN'ESPERIENZA DI FEDE
CONOSCERE L'ORIENTE CRISTIANO
UN'ESPERIENZA DI FEDE
5. «Nell'indagare la verità rivelata in oriente e in occidente furono
usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla
proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni
aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo più adatto
e posti in miglior luce dall'uno che non dall'altro, cosicché si può
dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si
completino, piuttosto che opporsi» [Conc. Ecum. Vat. II, Decr.
sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17].
Portando nel cuore le domande, le aspirazioni e le esperienze a cui
ho accennato, la mia mente si volge al patrimonio cristiano
dell'Oriente. Non intendo descriverlo né interpretarlo: mi metto in
ascolto delle Chiese d'Oriente che so essere interpreti viventi del
tesoro tradizionale da esse custodito. Nel contemplarlo appaiono ai miei
occhi elementi di grande significato per una più piena ed integrale
comprensione dell'esperienza cristiana e, quindi, per dare una più
completa risposta cristiana alle attese degli uomini e delle donne di
oggi. Rispetto a qualsiasi altra cultura, l'Oriente cristiano ha infatti
un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della
Chiesa nascente.
La tradizione orientale cristiana implica un modo di accogliere, di
comprendere e di vivere la fede nel Signore Gesù. In questo senso essa è
vicinissima alla tradizione cristiana d'Occidente che nasce e si nutre
della stessa fede. Eppure se ne differenzia, legittimamente e
mirabilmente, in quanto il cristiano orientale ha un proprio modo di
sentire e di comprendere, e quindi anche un modo originale di vivere il
suo rapporto con il Salvatore. Voglio qui avvicinarmi con rispetto e
trepidazione all'atto di adorazione che esprimono queste Chiese,
piuttosto che individuare questo o quel punto teologico specifico,
emerso nei secoli in contrapposizione polemica nel dibattito tra
Occidentali e Orientali.
L'Oriente cristiano fin dalle origini si mostra multiforme al proprio
interno, capace di assumere i tratti caratteristici di ogni singola
cultura e con un sommo rispetto di ogni comunità particolare. Non
possiamo che ringraziare Dio, con profonda commozione, per la mirabile
varietà con cui ha consentito di comporre, con tessere diverse, un
mosaico così ricco e composito.
6. Vi sono alcuni tratti della tradizione spirituale e teologica,
comuni alle diverse Chiese d'Oriente, che ne distinguono la sensibilità
rispetto alle forme assolute della trasmissione del Vangelo nelle terre
d'Occidente. Così li sintetizza il Vaticano II: «E noto a tutti con
quanto amore i cristiani orientali compiano le sacre azioni liturgiche,
soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e
pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col Vescovo
hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo Incarnato, morto e
glorificato, nell'effusione dello Spirito Santo, ed entrano in
comunione con la santissima Trinità, fatti "partecipi della natura
divina" (2Pt 1,4)» [Ibidem, 15].
In questi tratti si delinea la visione orientale del cristiano, il
cui fine è la partecipazione alla natura divina mediante la comunione al
mistero della santa Trinità. Vi si tratteggiano la «monarchia» del
Padre e la concezione della salvezza secondo l'economia, quale la
presenta la teologia orientale dopo Sant'Ireneo di Lione e quale si
diffonde presso i Padri cappadoci [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie,
V,36,2: SCh 153/2,461; S. Basilio, Trattato sullo Spirito Santo, XV,36:
PG 32,132; XVII,43, I.c., 148; XVIII, 47, I.c., 153].
La partecipazione alla vita trinitaria si realizza attraverso la
liturgia e in modo particolare l'Eucaristia, mistero di comunione con il
corpo glorificato di Cristo, seme di immortalità [cfr. S. Gregorio di
Nissa, Discorso catechetico XXXVII: PG 45,97]. Nella divinizzazione e
soprattutto nei sacramenti la teologia orientale attribuisce un ruolo
tutto particolare allo Spirito Santo: per la potenza dello Spirito che
dimora nell'uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è
trasfigurata e il Regno di Dio è inaugurato.
L'insegnamento dei Padri cappadoci sulla divinizzazione è passato
nella tradizione di tutte le Chiese orientali e costituisce parte del
loro patrimonio comune. Ciò si può riassumere nel pensiero già espresso
da Sant'Ireneo alla fine del II secolo: Dio si è fatto figlio dell'uomo,
affinché l'uomo potesse divenire figlio di Dio [cfr. Contro le eresie,
III,10,2: SCh 211/2,121; III,18,7, I.c., 365; III,19,1, I.c., 375;
IV,20,4: SCh 100/2,635; IV 33,4, I.c., 811; V, Pref., SCh 153/2,15].
Questa teologia della divinizzazione resta una delle acquisizioni
particolarmente care al pensiero cristiano orientale [Innestati in
Cristo «gli uomini diventano dei e figli di Dio, ... la polvere e
innalzata ad un tale grado di gloria da essere ormai uguale in onore e
deità alla natura divina», Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, I: PG
150,505].
In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia
e l'impegno nella via del bene ha reso «somigliantissimi» al Cristo: i
martiri e i santi [cfr. S.Giovanni Damasceno, Sulle immagini, I,19: PG
94,1249]. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine
Maria, dalla quale è germogliato il Virgulto di Jesse (cfr. Is
11,1). La sua figura è non solo la Madre che ci attende ma la Purissima
che - realizzazione di tante prefigurazioni veterotestamentarie - è
icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla
grazia, modello e sicura speranza per quanti muovono i loro passi verso
la Gerusalemme del cielo [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris
Mater (25 marzo 1987) 31-34: AAS 79 (1987), 402-406; Conc. Ecum. Vat.
II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 15].
Pur accentuando fortemente il realismo trinitario e la sua
implicazione nella vita sacramentale l'Oriente associa la fede
nell'unità della natura divina alla inconoscibilità della divina
essenza. I Padri orientali affermano sempre che è impossibile sapere ciò
che Dio è, si può solo sapere che Egli è, poiché si è rivelato nella
storia della salvezza come Padre, Figlio e Spirito Santo [cfr. S.
Ireneo, Contro le eresie, II,28,3-6: SCh 294,274-284; S. Gregorio di
Nissa, Vita di Mosè: PG 44,377; S. Gregorio di Nazianzo, Sulla santa
Pasqua, or. XLV, 3s: PG 36,625-630].
Questo senso della indicibile realtà divina si riflette nella
celebrazione liturgica, dove il senso del mistero è colto così
fortemente da parte di tutti i fedeli dell'Oriente cristiano.
«In oriente si trovano pure le ricchezze di quelle tradizioni
spirituali, che sono state espresse specialmente dal monachesimo. Ivi
infatti fin dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità
monastica, che si estese poi all'occidente e dalla quale, come da sua
fonte trasse origine la regola monastica dei latini e in seguito
ricevette ripetutamente nuovo vigore. Perciò caldamente si raccomanda
che i cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei
padri orientali, le quali trasportano tutto l'uomo alla contemplazione
delle cose divine» [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 15].
Vangelo, Chiese e culture
7. Già altre volte ho messo in evidenza che un primo grande valore
vissuto particolarmente nell'Oriente cristiano consiste nell'attenzione
ai popoli e alle loro culture, perché la Parola di Dio e la sua lode
possano risuonare in ogni lingua. Su questo tema mi sono soffermato
nella Lettera enciclica Slavorum Apostoli, ove rilevavo che Cirillo e
Metodio «desiderarono diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai
quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e
condividerne in tutto la sorte» [N. 9: AAS 77 (1985), 789-790]; «si
trattava di un nuovo metodo di catechesi» [Ibidem, II, I.c., 791]. Nel
fare questo essi espressero un atteggiamento molto diffuso nell'Oriente
cristiano: «Incarnando il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che
evangelizzavano, i Santi Cirillo e Metodio ebbero particolari meriti
per la formazione e lo sviluppo di quella stessa cultura o, meglio, di
molte culture» [Ibidem, 21, I.c., 802-803]. Rispetto e considerazione
per le culture particolari si uniscono in essi alla passione per
l'universalità della Chiesa, che instancabilmente si sforzano di
realizzare. L'atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è
rappresentativo, nell'antichità cristiana, di uno stile tipico di molte
Chiese: la rivelazione si annuncia in modo adeguato e si fa pienamente
comprensibile quando Cristo parla la lingua dei vari popoli, e questi
possono leggere la Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le
espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi della
Pentecoste.
In un tempo nel quale si riconosce come sempre più fondamentale il
diritto di ogni popolo ad esprimersi secondo il proprio patrimonio di
cultura e di pensiero, l'esperienza delle singole Chiese d'Oriente ci si
presenta come un autorevole esempio di riuscita inculturazione.
Da questo modello apprendiamo che se vogliamo evitare il rinascere di
particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo comprendere
che l'annuncio del Vangelo deve essere, ad un tempo, profondamente
radicato nella specificità delle culture ed aperto a confluire in una
universalità che è scambio per il comune arricchimento.
Tra memoria e attesa
8. Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente; è come se l'uomo
avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede
e lo segue. A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con
animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in particolare
le Chiese dell'Oriente offrono uno spiccato senso della continuità, che
prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica.
La Tradizione è patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del
Risorto incontrato e testimoniato dagli Apostoli che ne hanno trasmesso
il ricordo vivente ai loro successori, in una linea ininterrotta che è
garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle
mani, fino ai Vescovi di oggi. Essa si articola nel patrimonio storico e
culturale di ciascuna Chiesa, plasmato in essa dalla testimonianza dei
martiri, dei padri e dei santi, nonché dalla fede viva di tutti i
cristiani lungo i secoli fino ai nostri giorni. Si tratta non di una
ripetizione immutata di formule, ma di un patrimonio che custodisce il
vivo nucleo kerygmatico originario. E la Tradizione che sottrae la
Chiesa al pericolo di raccogliere solo opinioni mutevoli e ne garantisce
la certezza e la continuità.
Quando gli usi e le consuetudini propri di ciascuna Chiesa vengono
intesi come pura immobilità, si rischia certo di sottrarre alla
Tradizione quel carattere di realtà vivente, che cresce e si sviluppa, e
che lo Spirito le garantisce proprio perché essa parli agli uomini di
ogni tempo. E come già la Scrittura cresce con chi la legge [«Divina
eloquia cum legente crescunt»: S. Gregorio Magno In Ezechiel, I,VII,8:
PL 76,843], così ogni altro elemento del patrimonio vivo della Chiesa
cresce nella comprensione dei credenti e si arricchisce di apporti
nuovi, nella fedeltà e nella continuità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
8]. Solo una religiosa assimilazione, nell'obbedienza della fede, di
ciò che la Chiesa chiama «Tradizione» consentirà a questa di incarnarsi
nelle diverse situazioni e condizioni storico-culturali [cfr.
Commissione Teologica lnternazionale, Interpretationis problema (ottobre
1989), II,1-2: EnVat 11, pp. 1717-1719]. La Tradizione non è mai pura
nostalgia di cose o forme passate, o rimpianto di privilegi perduti, ma
la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore
che la inabita.
Se la Tradizione ci pone in continuità con il passato, l'attesa
escatologica ci apre al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro
la tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di autocelebrarsi
o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che
si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è
sempre dono gratuito. Il Signore Gesù è venuto a morire per noi ed è
risorto dai morti, mentre la creazione, salvata nella speranza, soffre
ancora nelle doglie del parto (cfr. Rm 8,22); quello stesso Signore tornerà per consegnare il cosmo al Padre (cfr. 1Cor 15,28). Questo ritorno la Chiesa invoca, e di esso è testimone privilegiato il monaco e il religioso.
L'Oriente esprime in modo vivo le realtà della tradizione e
dell'attesa. Tutta la sua liturgia, in particolare, è memoriale della
salvezza e invocazione del ritorno del Signore. E se la Tradizione
insegna alle Chiese la fedeltà a ciò che le ha generate, l'attesa
escatologica le spinge al essere ciò che ancora non sono in pienezza e
che il Signore vuole che diventino, e quindi a cercare sempre nuove vie
di fedeltà, vincendo il pessimismo perché proiettate verso la speranza
di Dio che non delude.
Dobbiamo mostrare agli uomini la bellezza della memoria, la forza che
ci viene dallo Spirito e che ci rende testimoni perché siamo figli di
testimoni; far gustare loro le cose stupende che lo Spirito ha
disseminato nella storia; mostrare che è proprio la Tradizione a
conservarle dando quindi speranza a coloro che, pur non avendo veduto i
loro sforzi di bene coronati da successo, sanno che qualcun altro li
porterà a compimento, allora l'uomo si sentirà meno solo, meno rinchiuso
nell'angolo angusto del proprio operato individuale.
Il monachesimo come esemplarità di vita battesimale
9. Vorrei ora guardare il vasto paesaggio del cristianesimo d'Oriente
da un'altura particolare, che permette di scorgerne molti tratti: il
monachesimo.
In Oriente il monachesimo ha conservato una grande unità, non
conoscendo, come in Occidente, la formazione dei diversi tipi di vita
apostolica. Le varie espressioni della vita monastica, dal cenobitismo
stretto, come lo concepivano Pacomio o Basilio, all'eremitismo più
rigoroso di un Antonio o di un Macario l'egiziano, corrispondono più a
stadi diversi del cammino spirituale che alla scelta tra diversi stati
di vita. Tutti comunque si rifanno al monachesimo in sé, in qualsiasi
forma esso si esprima.
Inoltre il monachesimo non è stato visto in Oriente soltanto come una
condizione a parte, propria di una categoria di cristiani ma
particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella
misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una
sintesi emblematica del cristianesimo.
Quando Dio chiama in modo totale come nella vita monastica, allora la
persona può raggiungere il punto più alto di quanto sensibilità,
cultura e spiritualità sono in grado di esprimere. Ciò vale a maggior
ragione per le Chiese orientali, per le quali il monachesimo costituì
una esperienza essenziale e che ancora oggi mostra di fiorire in esse,
non appena la persecuzione ha termine e i cuori possono levarsi in
libertà verso i cieli. Il monastero è il luogo profetico in cui il
creato diventa lode di Dio e il precetto della carità concretamente
vissuta diventa ideale di convivenza umana, e dove l'essere umano cerca
Dio senza barriere e impedimenti, diventando riferimento per tutti,
portandoli nel cuore ed aiutandoli a cercare Dio.
Vorrei anche ricordare la fulgida testimonianza delle monache
nell'Oriente cristiano. Essa ha indicato un modello di valorizzazione
dello specifico femminile nella Chiesa, anche forzando la mentalità del
tempo. Durante recenti persecuzioni, soprattutto nei paesi dell'Est
europeo, quando molti monasteri maschili furono chiusi con violenza, il
monachesimo femminile ha conservato accesa la fiaccola della vita
monastica. Il carisma della monaca con le caratteristiche che le sono
specifiche, è un segno visibile di quella maternità di Dio alla quale
sovente si richiama la Scrittura santa.
Guarderò dunque al monachesimo, per individuare quei valori che sento
oggi molto importanti per esprimere l'apporto dell'Oriente cristiano al
cammino della Chiesa di Cristo verso il Regno. Senza essere esclusivi
talvolta né della sola esperienza monastica né del patrimonio
dell'Oriente, questi aspetti hanno spesso acquisito in esso una
connotazione particolare. D'altronde noi stiamo cercando di valorizzare
non l'esclusività ma l'arricchimento reciproco in ciò che l'unico
Spirito ha suscitato nell'unica Chiesa di Cristo.
Il monachesimo è stato da sempre l'anima stessa delle Chiese
orientali: i primi monaci cristiani sono nati in Oriente e la vita
monastica è stata parte integrante del lumen orientale trasmesso in
Occidente dai grandi Padri della Chiesa indivisa [Grande è stato
l'influsso in Occidente della Vita di Antonio, scritta da S. Atanasio:
PG 26,835-977. La ricorda, tra gli altri, S. Agostino nelle sue
Confessiones, VIII, 6: CSEL 33,181-182. Le traduzioni di opere dei Padri
orientali, tra le quali le Regole di S. Basilio: PG 31,889-1305; la
Storia dei monaci d 'Egitto: PG 65,441-456, e gli Apoftegmi dei Padri
del deserto: PG 65,72-440 segnarono il monachesimo in Occidente; cfr.
Guglielmo di Saint-Thierry, Epistula ad Fratres de Monte Dei: SCh
223,130-384].
I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e
d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità
vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra
le Chiese.
Tra Parola ed Eucaristia
10. Il monachesimo in modo particolare rivela che la vita è sospesa
tra due vertici: la Parola di Dio e l'Eucaristia. Ciò significa che esso
è sempre, anche nelle sue forme eremitiche, al contempo risposta
personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e comunitario.
E la Parola di Dio il punta di partenza del monaco, una Parola che
chiama, che invita; che personalmente interpella, come accadde agli
Apostoli. Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce
l'obbedienza, cioè l'ascolto che cambia la vita. Ogni giorno il monaco
si nutre del pane della Parola. Privato di esso egli è come morto, e non
ha più nulla da comunicare ai fratelli, perché la Parola è Cristo, al
quale il monaco è chiamato a conformarsi.
Anche quando canta con i suoi fratelli la preghiera che santifica il
tempo, egli continua la sua assimilazione della Parola. La ricchissima
innografia liturgica, della quale vanno giustamente fiere tutte le
Chiese dell'Oriente cristiano, non è che la continuazione della Parola
letta, compresa, assimilata e finalmente cantata: quegli inni sono in
gran parte delle sublimi parafrasi del testo biblico, filtrate e
personalizzate attraverso l'esperienza del singolo e della comunità.
Di fronte all'abisso della divina misericordia al monaco non resta
che proclamare la coscienza della propria povertà radicale, che diviene
subito invocazione e grido di giubilo per una salvezza ancora più
generosa, perché insperabile dall'abisso della propria miseria [cfr. ad
esempio S. Basilio, Regola breve: PG 31,1079-1305; S. Giovanni
Crisostomo, Sulla compunzione: PG 47 391-422; Omelie su Matteo, om.
XV,3, PG 57,225-228; S. Gregorio di Nissa Sulle beatitudini, om. 3: PG
44,1219-1232]. Ecco perché l'invocazione di perdono e la glorificazione
di Dio sostanziano gran parte della preghiera liturgica. Il cristiano è
immerso nello stupore di questo paradosso, ultimo di una infinita serie,
tutta magnificata con riconoscenza nel linguaggio della liturgia:
l'Immenso si fa limite, una vergine partorisce; attraverso la morte
Colui che è la vita sconfigge per sempre la morte, nell'alto dei cieli
un corpo umano si asside alla destra del Padre.
Al culmine di questa esperienza orante sta l'Eucaristia, l'altro
vertice indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel quale
la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove essa torna a
farsi evento.
Nell'Eucaristia si svela la natura profonda della Chiesa, comunità
dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di Colui che è
offerente ed offerta: essi, partecipando ai Santi Misteri divengono
«consanguinei» [cfr. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, IV: PG
150,584-585; Cirillo d'Alessandria, Trattato su Giovanni, 11: PG 74,561;
ibidem, 12, 1.c., 564; S. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo om.
LXXXII,5: PG 58,743-744] di Cristo, anticipando l'esperienza della
divinizzazione nell'ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo
divinità e umanità.
Ma l'Eucaristia è anche ciò che anticipa l'appartenenza di uomini e
cose alla Gerusalemme celeste. Essa svela così compiutamente la sua
natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il monaco
prosegue e porta a pienezza nella liturgia l'invocazione della Chiesa,
la Sposa che supplica il ritorno dello Sposo in un «marana tha»
continuamente ripetuto non solo a parole, ma con l'intera esistenza.
Una liturgia per tutto l'uomo e per tutto il cosmo
11. Nell'esperienza liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina
il cammino e svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella
Scrittura. Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e
pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di tratti che
solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la loro piena
destinazione. Ecco perché la liturgia è il cielo sulla terra e in essa
il Verbo che ha assunto la carne permea la materia di una potenzialità
salvifica che si manifesta in pienezza nei Sacramenti: lì la creazione
comunica a ciascuno la potenza conferitale da Cristo. Così il Signore,
immerso nel Giordano, trasmette alle acque una potenza che le abilita ad
essere lavacro di rigenerazione battesimale [cfr. S. Gregorio di
Nazianzo, Discorso XXXIX: PG 36,335-360].
In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande
attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero
è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei
sentimenti che suscita nel cuore dell'umanità salvata. Nell'azione sacra
anche la corporeità è convocata alla lode e la bellezza, che in Oriente
è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello
dell'umanità trasfigurata [cfr. Clemente di Alessandria, Il Pedagogo,
III,1,1: SCh 158,12], si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei
suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi. Il tempo prolungato delle
celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto esprime un progressivo
immedesimarsi nel mistero celebrato con tutta la persona. E la preghiera
della Chiesa diviene così già partecipazione alla liturgia celeste,
anticipo della beatitudine finale.
Questa valorizzazione integrale della persona nelle sue componenti
razionali ed emotive, nell'«estasi» e nell'immanenza, è di grande
attualità, costituendo una mirabile scuola per la comprensione del
significato delle realtà create: esse non sono né un assoluto, né un
nido di peccato e di iniquità. Nella liturgia le cose svelano la propria
natura di dono offerto dal Creatore all'umanità: «Dio vide quanto aveva
fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Se tutto ciò è
segnato dal dramma del peccato, che appesantisce la materia e ne
ostacola la trasparenza, questa è redenta nell'Incarnazione e resa
pienamente teoforica, cioè capace di metterci in relazione con il Padre:
questa proprietà è massimamente manifesta nei santi misteri, i
Sacramenti della Chiesa.
Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la corporeità, che viene
anzi valorizzata in pieno nell'atto liturgico, nel quale il corpo umano
mostra la sua intima natura di tempio dello Spirito e giunge ad unirsi
al Signore Gesù, fatto anch'egli corpo per la salvezza del mondo. Né
questo comporta una esaltazione assoluta di tutto quanto è fisico,
perché conosciamo bene quale disordine abbia introdotto il peccato
nell'armonia dell'essere umano. La liturgia rivela che il corpo,
attraversando il mistero della Croce, è in cammino verso la
trasfigurazione, la pneumatizzazione: sul monte Tabor Cristo lo ha
mostrato splendente come è volere del Padre che torni ad essere.
Ed anche la realtà cosmica è convocata al rendimento di grazie,
perché tutto il cosmo è chiamato alla ricapitolazione nel Cristo
Signore. Si esprime in questa concezione un equilibrato e mirabile
insegnamento sulla dignità, il rispetto e la finalità della creazione e
del corpo umano in particolare. Esso, rigettato parimenti ogni dualismo
ed ogni culto del piacere fine a se stesso, diventa luogo reso luminoso
dalla grazia e quindi pienamente umano.
A chi cerca un rapporto di autentico significato con se stesso e con
il cosmo, così spesso ancora sfigurato dall'egoismo e dall'ingordigia,
la liturgia rivela la via verso l'equilibrio dell'uomo nuovo e invita al
rispetto per la potenzialità eucaristica del mondo creato: esso è
destinato ad essere assunto nell'Eucaristia del Signore, nella sua
Pasqua presente nel sacrificio dell'altare.
Uno sguardo limpido alla scoperta di se stessi
12. A Cristo, l'Uomo-Dio, si volge lo sguardo del monaco: nel volto
sfigurato di Lui, uomo del dolore, egli già scorge l'annuncio profetico
del volto trasfigurato del Risorto. All'occhio contemplativo il Cristo
si rivela come alle donne di Gerusalemme, salite a contemplare il
misterioso spettacolo del Calvario. E così, formato a quella scuola, lo
sguardo del monaco si abitua a contemplare Cristo anche nelle pieghe
nascoste della creazione e nella storia degli uomini, essa pure compresa
nel suo progressivo conformarsi al Cristo totale.
Lo sguardo progressivamente cristificato impara così a distaccarsi
dall'esteriorità, dal turbine dei sensi da quanto cioè impedisce
all'uomo quella lievità disponibile a lasciarsi afferrare dallo Spirito.
Percorrendo questa strada egli si lascia riconciliare con Cristo in un
incessante processo di conversione: nella coscienza del proprio peccato e
della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore simbolo
del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e
nella quiete interiore ricercata e donata, dove si apprende a far
battere il cuore in armonia con il ritmo dello Spirito, eliminando ogni
doppiezza o ambiguità. Questo divenire sempre più sobrio ed essenziale,
più trasparente a se stesso, può farlo cadere nell'orgoglio e
nell'intransigenza, se arriva a ritenere che ciò sia il frutto del suo
sforzo ascetico. Il discernimento spirituale, nella continua
purificazione, lo rende allora umile e mansueto, cosciente di percepire
solo qualche tratto di quella verità che lo sazia, perché è dono dello
Sposo, Lui solo pienezza di felicità.
All'uomo che cerca il significato della vita, l'Oriente offre questa
scuola per conoscersi ed essere libero, amato da quel Gesù che disse:
«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi
ristorerò» (Mt 11,28). A chi cerca la guarigione interiore, egli
dice di continuare a cercare: se l'intenzione è retta e la via onesta
alla fine il volto del Padre si farà riconoscere, impresso com'è nelle
profondità del cuore umano.
Un padre nello Spirito
13. Il percorso del monaco non è scandito in genere unicamente da uno
sforzo personale, ma fa riferimento ad un padre spirituale, al quale si
abbandona con fiducia filiale nella certezza che in lui si manifesta la
tenera ed esigente paternità di Dio. Questa figura dà al monachesimo
orientale una straordinaria duttilità: per l'opera del padre spirituale
il cammino di ogni monaco è infatti fortemente personalizzato nei tempi,
nei ritmi, nei modi della ricerca di Dio. Proprio perché il padre
spirituale è il punto di raccordo e di ammonizzazione, ciò consente al
monachesimo la più grande varietà di espressioni, cenobitiche ed
eremitiche. Il monachesimo in Oriente ha così potuto essere
realizzazione delle attese di ciascuna Chiesa nei vari periodi della sua
storia [Significative sono, ad esempio, le esperienze di Antonio; cfr.
S. Atanasio Vita di Antonio, 15: PG 26,865; di S. Pacomio, Les vies
copres de saint Pakhome et ses successeurs, ed. L. Th. Lefort, Louvain
1943, p.3; e la testimonianza di Evagrio Il Pontico, Trattato pratico,
100: SCh 171,710].
In questa ricerca l'Oriente insegna in modo particolare che ci sono
fratelli e sorelle ai quali lo Spirito ha elargito il dono della guida
spirituale: essi sono punti di riferimento preziosi, perché guardano con
l'occhio di amore che Dio tiene su di noi. Non si tratta di rinunciare
alla propria libertà, per farsi gestire da altri: si tratta di trarre
profitto dalla conoscenza del cuore, che è un vero carisma per essere
aiutati, con dolcezza e fermezza a trovare la strada della verità. Il
nostro mondo ha un estremo bisogno di padri. Spesso li ha rifiutati
perché gli sembravano poco credibili, o il loro modello appariva ormai
superato e poco attraente per la sensibilità corrente. Stenta tuttavia a
trovarne di nuovi, e allora soffre nella paura e nell'incertezza, senza
modelli e punti di riferimento. Colui che è padre nello Spirito, se è
veramente tale - e il popolo di Dio ha sempre mostrato di saperlo
riconoscere -, non farà uguali a se stesso, ma aiuterà a trovare la
strada verso il Regno.
Certo, anche all'Occidente è dato il dono mirabile di una vita
monastica, maschile e femminile, che custodisce il dono della guida
nello Spirito ed attende di essere valorizzata. In quell'ambito e
dovunque la grazia susciti tali preziosi strumenti di maturazione
interiore, possano i responsabili coltivare e valorizzare un tale dono e
tutti avvalersene: sperimenteranno così quale consolazione e quale
sostegno sia la paternità nello Spirito per il loro cammino di fede
[cfr. Giovanni Paolo II, Omelia ai Religiosi e alle Religiose (2
febbraio 1988), 6: AAS 80 (1988), 1111].
Comunione e servizio
14. Proprio nel progressivo distacco da ciò che nel mondo lo ostacola
nella comunione col suo Signore, il monaco ritrova il mondo come luogo
ove si riflette la bellezza del Creatore e l'amore del Redentore. Nella
sua orazione il monaco pronuncia una epiclesi dello Spirito sul mondo ed
è certo che sarà esaudito, perché essa partecipa della stessa preghiera
di Cristo. E così egli sente nascere in sé un amore profondo per
l'umanità, quell'amore che la preghiera in Oriente così spesso celebra
come attributo di Dio, l'amico degli uomini che non ha esitato ad
offrire suo Figlio perché il mondo fosse salvo. In questo atteggiamento è
dato talora al monaco di contemplare quel mondo già trasfigurato
dall'azione deificante del Cristo morto e risorto.
Qualunque sia la modalità che lo Spirito gli riserva, il monaco è
sempre essenzialmente l'uomo della comunione. Con questo nome si è
indicato fin dall'antichità anche lo stile monastico della vita
cenobitica. Il monachesimo ci mostra come non vi sia autentica vocazione
che non nasca dalla Chiesa e per la Chiesa. Ne è testimonianza
l'esperienza di tanti monaci che, rinchiusi nelle loro celle, portano
nella loro preghiera una straordinaria passione non solo per la persona
umana ma per ogni creatura, nell'invocazione incessante affinché tutto
si converta alla corrente salvifica dell'amore di Cristo. Questo cammino
di liberazione interiore nell'apertura all'Altro fa del monaco l'uomo
della carità. Alla scuola dell'apostolo Paolo che indica la pienezza
della legge nella carità (cfr. Rm 13,10), la comunione monastica orientale è sempre stata attenta a garantire la superiorità dell'amore rispetto ad ogni legge.
Essa si manifesta anzitutto nel servizio ai fratelli nella vita
monastica ma poi anche alla comunità ecclesiale, in forme che variano
nei tempi e nei luoghi, e vanno dalle opere sociali alla predicazione
itinerante. Le Chiese d'Oriente hanno vissuto con grande generosità
questo impegno, a cominciare dalla evangelizzazione che è il servizio
più alto che il cristiano possa offrire al fratello, per proseguire in
molte altre forme di servizio spirituale e materiale. Si può anzi dire
che il monachesimo sia stato nell'antichità - e, a varie riprese, anche
in tempi successivi - lo strumento privilegiato per l'evangelizzazione
dei popoli.
Una persona in relazione
15. La vita del monaco dà ragione dell'unità che esiste in Oriente
fra spiritualità e teologia: il cristiano, e il monaco in particolare,
più che cercare verità astratte, sa che solo il suo Signore è Verità e
Vita, ma sa anche che egli è la Via (cfr. Gv 14,6) per
raggiungere entrambe; conoscenza e partecipazione sono dunque un'unica
realtà: dalla persona al Dio tripersonale attraverso l'Incarnazione del
Verbo di Dio.
L'Oriente ci aiuta a delineare con grande ricchezza di elementi il
significato cristiano della persona umana. Esso è centrato
sull'Incarnazione, dalla quale trae luce la stessa creazione. In Cristo,
vero Dio e vero uomo, si svela la pienezza dell'umana vocazione: perché
l'uomo diventasse Dio il Verbo ha assunto l'umanità. L'uomo, che
conosce continuamente il gusto amaro del suo limite e del suo peccato,
non si abbandona allora alla recriminazione o all'angoscia perché sa che
dentro di sé opera la potenza della divinità. L'umanità è stata assunta
da Cristo senza separazione dalla natura divina e senza confusione
[cfr. Symbolum Chalsedonense, DS 301-302], e l'uomo non è lasciato solo a
tentare, in mille modi spesso frustrati, una impossibile scalata al
cielo: vi è un tabernacolo di gloria, che è la persona santissima di
Gesù il Signore, dove divino e umano si incontrano in un abbraccio che
non potrà mai essere sciolto: il Verbo si è fatto carne, in tutto simile
a noi eccetto il peccato. Egli versa la divinità nel cuore malato
dell'umanità e, infondendovi lo Spirito del Padre, la rende capace di
diventare Dio per grazia.
Ma se questo ci ha rivelato il Figlio, allora a noi è dato di
accostarci al mistero del Padre, principio di comunione nell'amore. La
Trinità Santissima ci appare allora come una comunità di amore:
conoscere un simile Dio significa sentire l'urgenza che egli parli al
mondo, che si comunichi, e la storia della salvezza non è che la storia
d'amore di Dio per la creatura che egli ha amato e scelto, volendola
«secondo l'icona dell'icona» - come si esprime l'intuizione dei Padri
orientali [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, V,16,2: SCh 153/2,217; IV,
334: SCh 100/2,811; S. Atanasio, Contro i Gentili 2-3 e 34: PG 25,5-8 e
68-69; L'incarnazione del Verbo, 12-13: SCh 18,228-231], - cioè plasmata
ad immagine dell'Immagine, che è il Figlio, condotta alla comunione
perfetta dal santificatore, lo Spirito d'amore. E anche quando l'uomo
pecca, questo Dio lo cerca e lo ama, perché la relazione non sia
fratturata e l'amore continui a scorrere. E lo ama nel mistero del
Figlio, che si lascia uccidere sulla croce da un mondo che non lo
riconobbe, ma è risuscitato dal Padre, quale garanzia perenne che
nessuno può uccidere l'amore, perché chiunque ne è partecipe è toccato
dalla gloria di Dio: è quest'uomo trasformato dall'amore che i discepoli
hanno contemplato sul Tabor, l'uomo che noi tutti siamo chiamati ad
essere.
Un silenzio che adora
16. Eppure continuamente questo mistero si vela, si copre di silenzio
[Il silenzio («hesychia») è una componente essenziale della
spiritualità monastica orientale; cfr. Vita e detti dei Padri del
Deserto: PG 65,72-456; Evagrio Il Pontico, Le basi della vita monastica:
PC 40,1252-1264], per evitare che, in luogo di Dio, ci si costruisca un
idolo. Solo in una purificazione progressiva della conoscenza di
comunione, l'uomo e Dio si incontreranno e riconosceranno nell'abbraccio
eterno la loro mai cancellata connaturalità d'amore.
Nasce così quello che viene chiamato l'apofatismo dell'Oriente
cristiano: più l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce
come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza. Ciò non va
confuso con un misticismo oscuro dove l'uomo si perde in enigmatiche
realtà impersonali. Anzi, i cristiani d'Oriente si rivolgono a Dio come
Padre, Figlio, Spirito Santo, persone vive, teneramente presenti, alle
quali esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e
semplice. Essi però percepiscono che a questa presenza ci si avvicina
soprattutto lasciandosi educare ad un silenzio adorante, perché al
culmine della conoscenza e dell'esperienza di Dio sta la sua assoluta
trascendenza. Ad esso si giunge, più che attraverso una meditazione
sistematica, mediante l'assimilazione orante della Scrittura e della
liturgia.
In questa umile accettazione del limite creaturale di fronte
all'infinita trascendenza di un Dio che non cessa di rivelarsi come il
Dio-Amore, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nel gaudio dello
Spirito Santo, io vedo espresso l'atteggiamento della preghiera e il
metodo teologico che l'Oriente preferisce e continua ad offrire a tutti i
credenti in Cristo.
Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio
carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno
la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non
dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto
così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo (cfr. Es
34, 33) e perché le nostre assemblee sappiano fare spazio alla presenza
di Dio, evitando di celebrare se stesse; la predicazione, perché non si
illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare
all'esperienza di Dio; l'impegno, per rinunciare a chiudersi in una
lotta senza amore e perdono. Ne ha bisogno l'uomo di oggi che spesso non
sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il
vuoto che si fa domanda di significato; l'uomo che si stordisce nel
rumore. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un
silenzio che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi
di comprendere quella parola.
II
DALLA CONOSCENZA ALL'INCONTRO
DALLA CONOSCENZA ALL'INCONTRO
17. Trent'anni sono trascorsi da quando i Vescovi della Chiesa
cattolica, riuniti in Concilio con la presenza di non pochi fratelli
delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, hanno ascoltato la voce dello
Spirito che illuminava verità profonde sulla natura della Chiesa,
manifestando così che tutti i credenti in Cristo si trovavano molto più
vicini di quanto potessero pensare, tutti in cammino verso l'unico
Signore, tutti sostenuti e sorretti dalla sua grazia. Emergeva di qui un
invito sempre più pressante all'unità.
Da allora molta strada si è fatta nella conoscenza reciproca. Essa ha
intensificato la stima e ci ha consentito spesso di pregare insieme
l'unico Signore ed anche gli uni per gli altri, in un cammino di carità
che è già pellegrinaggio di unità.
Dopo gli importanti passi compiuti da Papa Paolo VI, ho voluto che si
proseguisse sulla strada della reciproca conoscenza nella carità. Posso
testimoniare la gioia profonda che ha suscitato in me l'incontro
fraterno con tanti capi e rappresentanti di Chiese e Comunità ecclesiali
in questi anni. Insieme abbiamo condiviso preoccupazioni e attese,
insieme abbiamo invocato l'unione tra le nostre Chiese e la pace per il
mondo. Ci siamo sentiti insieme più responsabili del bene comune, non
solo come singoli ma a nome dei cristiani di cui il Signore ci ha fatto
pastori. Talvolta a questa Sede di Roma sono giunti i pressanti appelli
di altre Chiese, minacciate o colpite dalla violenza e dal sopruso. A
tutte essa ha cercato di aprire il proprio cuore. Per loro, appena è
stato possibile, si è levata la voce del Vescovo di Roma, perché gli
uomini di buona volontà ascoltassero il grido di quei nostri fratelli
sofferenti.
«Tra i peccati che esigono un maggior impegno di penitenza e di
conversione devono essere annoverati certamente quelli che hanno
pregiudicato l'unità voluta da Dio per il suo popolo. Nel corso dei
mille anni che si stanno concludendo, ancor più che nel primo millennio,
la comunione ecclesiale, "talora non senza colpa di uomini d'entrambe
le parti" [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
3], ha conosciuto dolorose lacerazioni che contraddicono apertamente
alla volontà di Cristo e sono di scandalo al mondo. Tali peccati del
passato fanno sentire ancora, purtroppo, il loro peso e permangono come
altrettante tentazioni anche nel presente. E necessario farne ammenda,
invocando con forza il perdono di Cristo» [Giovanni Paolo II, Lett.
ap.Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994), 34: AAS 87 (1995),
26].
Il peccato della nostra separazione è gravissimo: sento il bisogno
che cresca la nostra comune disponibilità allo Spirito che ci chiama a
conversione, ad accettare e riconoscere l'altro con rispetto fraterno, a
compiere nuovi gesti coraggiosi, capaci di sciogliere ogni tentazione
di ripiegamento. Sentiamo la necessità di andare oltre il grado di
comunione che abbiamo raggiunto.
18. Si fa in me ogni giorno più acuto il desiderio di ripercorrere la
storia delle Chiese, per scrivere finalmente una storia della nostra
unità, e riandare così al tempo in cui, all'indomani della morte e della
risurrezione del Signore Gesù, il Vangelo si diffuse nelle culture più
varie, ed ebbe inizio uno scambio fecondissimo ancor oggi testimoniato
dalle liturgie delle Chiese. Pur non mancando difficoltà e contrasti, le
lettere degli Apostoli (cfr. 2Cor 9,11-14) e dei Padri [cfr. S.
Clemente Romano, Lettera ai Corinti: Patres Apostolici, ed. F.X. Funk,
I, 64-144; S. Ignazio d'Antiochia, Lettere, l.c., 172-252; S. Policarpo,
Lettera ai Filippesi, I.c., 266-282] mostrano legami strettissimi,
fraterni, tra le Chiese, in una piena comunione di fede nel rispetto
delle specificità e delle identità. La comune esperienza del martirio e
la meditazione degli atti dei martiri di ogni Chiesa, la partecipazione
alla dottrina di tanti santi maestri della fede, in una profonda
circolazione e condivisione, rafforzano questo mirabile sentimento di
unità [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, I,10,2: SCh 264/2,158- 160]. Lo
sviluppo di differenti esperienze di vita ecclesiale non impediva che,
mediante reciproche relazioni, i cristiani potessero continuare a
provare la certezza di essere a casa propria in qualsiasi Chiesa perché
da tutte si levava, in mirabile varietà di lingue e di modulazioni, la
lode dell'unico Padre, per Cristo, nello Spirito Santo; tutte erano
adunate per celebrare l'Eucaristia, cuore e modello per la comunità non
solo per quanto riguarda la spiritualità o la vita morale, ma anche per
la struttura stessa della Chiesa, nella varietà dei ministeri e dei
servizi sotto la presidenza del Vescovo, successore degli Apostoli [cfr.
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 26; Cost. sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum concilium, 41; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
15]. I primi concili sono una testimonianza eloquente di questa
perdurante unità nella diversità [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. A
Concilio Constantinopolitano I (25 marzo 1981), 2: AAS 73 (1981), 515;
Lett. ap. Duodecimum saeculum (4 dicembre 1987), 2 e 4: AAS 80 (1988),
242.243-244].
Ed anche quando si rafforzarono certe incomprensioni dogmatiche -
amplificate spesso sotto l'influsso di fattori politici e culturali -
che già portavano a dolorose conseguenze nei rapporti fra le Chiese,
rimase vivo lo sforzo di invocare e promuovere l'unità della Chiesa. Nel
primo intreccio del dialogo ecumenico lo Spirito Santo ci ha consentito
di rinsaldarci nella fede comune, perfetta continuazione del kerygma
apostolico, e di questo rendiamo grazie a Dio con tutto il cuore [cfr.
Giovanni Paolo II, Omelia in S. Pietro, alla presenza di Demetrio I,
Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca Ecumenico (6 dicembre 1987),
3: AAS 80 (1988), 713-714]. E se lentamente, già nei primi secoli
dell'era cristiana, sono andate sorgendo contrapposizioni all'interno
del corpo della Chiesa, non possiamo dimenticare che per tutto il primo
millennio perdura, nonostante difficoltà, l'unità fra Roma e
Costantinopoli. Abbiamo sempre meglio appreso che a lacerare il tessuto
dell'unità non è stato tanto un episodio storico o una semplice
questione di preminenza, ma un progressivo estraneamento, sicché
l'altrui diversità non è più percepita come ricchezza comune, ma come
incompatibilità. Anche quando il secondo millennio conosce un
indurimento nella polemica e nella divisione, quanto più cresce
l'ignoranza reciproca e il pregiudizio, non cessano tuttavia incontri
costruttivi fra capi di Chiese desiderosi di intensificare i rapporti e
di favorire gli scambi, così come non viene meno l'opera santa di uomini
e donne che, riconoscendo nella contrapposizione un grave peccato ed
essendo innamorati dell'unità e della carità, hanno tentato in molti
modi di promuovere, con la preghiera, con lo studio e la riflessione,
con l'incontro aperto e cordiale, la ricerca della comunione [cfr. ad
esempio Anselmo di Havelberg, Dialoghi: PL 188,1139-1248]. E tutta
quest'opera meritoria a confluire nella riflessione del Concilio
Vaticano II e a trovare come un emblema nella abrogazione delle
reciproche scomuniche del 1054 voluta dal Papa Paolo VI e dal Patriarca
ecumenico Atenagora I [cfr. Tomos Agapis, Vatican-Phanar (1958-1970),
Rome-Istanbul, 1971, pp.278-295].
19. Il cammino della carità conosce nuovi momenti di difficoltà in
seguito ai recenti avvenimenti che hanno coinvolto l'Europa centrale e
orientale. Fratelli cristiani che insieme avevano subito la persecuzione
si guardano con sospetto e timore nel momento in cui si aprono
prospettive e speranze di maggiore libertà: non è questo un nuovo, grave
rischio di peccato che dobbiamo tutti, con ogni forza, tentare di
vincere, se vogliamo che popoli in ricerca possano più agevolmente
trovare il Dio dell'amore, anziché essere nuovamente scandalizzati dalle
nostre lacerazioni e contrapposizioni? Quando, in occasione del Venerdì
Santo 1994, Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I
fece dono alla Chiesa di Roma della sua meditazione sulla «Via della
Croce», ho voluto ricordare questa comunione nella recente esperienza
del martirio: «Noi siamo uniti in questi martiri fra Roma, la "Montagna
delle Croci" e le Isole Soloviesy e tanti altri campi di sterminio. Noi
siamo uniti sullo sfondo dei martiri non possiamo non essere uniti»
[Discorso dopo la Via Crucis del Venerdi Santo (1° aprile 1994): AAS 87
(1995), 87].
E dunque urgente che si prenda coscienza di questa gravissima
responsabilità: oggi possiamo cooperare per l'annuncio del Regno o
divenire fautori di nuove divisioni. Il Signore apra i nostri cuori,
converta le nostre menti e ci ispiri passi concreti, coraggiosi, capaci
se necessario di forzare luoghi comuni, facili rassegnazioni o posizioni
di stallo. Se chi vuol essere primo è chiamato a farsi servo di tutti,
allora dal coraggio di questa carità si vedrà crescere il primato
dell'amore. Prego il Signore perché ispiri prima di tutto a me stesso ed
ai Vescovi della Chiesa cattolica gesti concreti a testimonianza di
questa interiore certezza. Lo chiede la natura più profonda della
Chiesa. Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, sacramento della
comunione, noi troviamo nel Corpo e nel Sangue condiviso il sacramento e
l'appello alla nostra unità [cfr. Messale Romano, solennità del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, orazione sopra le offerte; ibidem,
preghiera eucaristica III; S. Basilio, Anafora alessandrina, ed. E.
Renaudot, Liturgiarum Orientalium Collectio, I, Francoforte, 1847,
p.68]. Come potremo essere pienamente credibili se ci presentiamo divisi
davanti all'Eucaristia, se non siamo capaci di vivere la partecipazione
allo stesso Signore che siamo chiamati ad annunciare al mondo? Di
fronte alla reciproca esclusione dall'Eucaristia sentiamo la nostra
povertà e l'esigenza di porre ogni sforzo affinché venga il giorno nel
quale parteciperemo insieme dello stesso pane e del medesimo calice
[cfr. Paolo VI, Messaggio ai Mechitaristi (8 settembre 1977):
Insegnamenti 15 (1977), 812]. Allora l'Eucaristia tornerà ad essere
pienamente percepita come profezia del Regno e riecheggeranno con piena
verità queste parole tratte da una antichissima preghiera eucaristica:
«Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una
cosa sola, così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra nel
tuo regno» [Didachè, IX,4; Patres Apostolici, ed. F.X. Funk, I,22].
Esperienze di unità
20. Ricorrenze di particolare significato ci incoraggiano a rivolgere
il nostro pensiero, con affetto e riverenza, alle Chiese orientali.
Anzitutto, come si è detto, il centenario della Lettera apostolica
«Orientalium Dignitas». Da allora ha avuto inizio un cammino che ha
portato, tra l'altro, nel 1917, alla creazione della Congregazione per
le Chiese Orientali [cfr. Motu proprio Dei providentis (1° maggio 1917):
AAS 9 (1917), 529-531] e all'istituzione del Pontificio Istituto
Orientale [cfr. Motu proprio Orientis Catholici (15 ottobre 1917), l.c.,
531 -533] ad opera del Papa Benedetto XV. In seguito, il 5 giugno 1960,
fu istituito da Giovanni XXIII il Segretariato per la promozione
dell'unità dei Cristiani [cfr. Motu proprio Superno Dei nutu (5 giugno
1960), 9: AAS 52 (1960), 435-436]. In tempi recenti, il 18 ottobre 1990,
ho promulgato il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [cfr. Cost.
ap. Sacri canones (18 ottobre 1990): AAS 82 (1990), 1033-1044], perché
fosse salvaguardata e promossa la specificità del patrimonio orientale.
Sono questi i segni di un atteggiamento che la Chiesa di Roma ha
sempre sentito parte integrante del mandato affidato da Gesù Cristo
all'apostolo Pietro: confermare i fratelli nella fede e nell'unità (cfr.
Lc 22,32). I tentativi del passato avevano i loro limiti
derivanti dalla mentalità dei tempi e dalla stessa comprensione delle
verità sulla Chiesa. Ma vorrei qui riaffermare che questo impegno porta
nella sua radice la convinzione che Pietro (cfr. Mt 16,17-19)
intende porsi al servizio di una Chiesa unità nella carità. «Il compito
di Pietro è di cercare costantemente le vie che servono al mantenimento
dell'unità. Egli, dunque, non deve creare ostacoli, ma cercare delle
vie. Il che non è affatto in contraddizione con il compito assegnatogli
da Cristo di "confermare i fratelli nella fede" (cfr. Lc 22,32).
Inoltre, è significativo che Cristo abbia pronunciato queste parole
proprio quando l'apostolo stava per rinnegarlo. Era come se il Maestro
stesso avesse voluto dirgli: "Ricordati che sei debole, che anche tu hai
bisogno di un'incessante conversione. Puoi confermare gli altri in
quanto hai coscienza della tua debolezza. Ti do come compito la verità,
la grande verità di Dio destinata alla salvezza dell'uomo, ma questa
verità non può essere predicata e realizzata in alcun altro modo che
amando". E necessario, sempre, "veritatem facere in caritate" - far
verità nella carità (cfr. Ef 4,15)» [Giovanni Paolo II, Varcare
la soglia della speranza, Milano 1994, p. 168]. Oggi sappiamo che
l'unità può essere realizzata dall'amore di Dio solo se le Chiese lo
vorranno insieme, nel pieno rispetto delle singole tradizioni e della
necessaria autonomia. Sappiamo che questo può compiersi solo a partire
dall'amore di Chiese che si sentono chiamate a manifestare sempre
maggiormente l'unica Chiesa di Cristo, nata da un solo battesimo e da
una sola eucarestia, e che vogliono essere sorelle [cfr. Conc. Ecum.
Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
14]. Come ebbi modo di dire, «è una la Chiesa di Cristo; se ci sono
divisioni si devono superare, ma la Chiesa è una, la Chiesa di Cristo
fra l'Oriente e l'Occidente non può essere che una, una e unità» [Visita
al Pont. Istituto Orientale, 12 dicembre 1993].
Certo, allo sguardo odierno appare che una vera unione era possibile
solo nel pieno rispetto dell'altrui dignità, senza ritenere che il
complesso degli usi e consuetudini della Chiesa latina fosse più
completo o più adatto a mostrare la pienezza della retta dottrina; ed
ancora che tale unione doveva essere preceduta da una coscienza di
comunione che permeasse tutta la Chiesa e non si limitasse ad un accordo
tra vertici. Oggi siamo coscienti - e lo si è più volte riaffermato -
che l'unità si realizzerà come e quando il Signore vorrà, e che essa
richiederà l'apporto della sensibilità e la creatività dell'amore, forse
anche andando oltre le forme già storicamente sperimentate [cfr. Conc.
Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, 30].
21. Le Chiese orientali entrate nella piena comunione con questa
Chiesa di Roma vollero essere una manifestazione di tale sollecitudine,
espressa secondo il grado di maturazione della coscienza ecclesiale in
quel tempo [cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio Magnum Baptismi donum (14
febbraio 1988), 4: AAS 80 (1988), 991-992]. Entrando nella comunione
cattolica, esse non intendevano affatto rinnegare la fedeltà alla loro
tradizione, che hanno testimoniato nei secoli con eroismo e spesso a
prezzo del sangue. E se talvolta, nei loro rapporti con le Chiese
ortodosse, si sono verificati malintesi e aperte contrapposizioni, tutti
sappiamo di dover invocare incessantemente la divina misericordia e un
cuore nuovo capace di riconciliazione, oltre ogni torto subito o
inflitto.
Più volte si è ribadito che la già realizzata unione piena delle
Chiese orientali cattoliche con la Chiesa di Roma non deve comportare
per esse una diminuzione nella coscienza della propria autenticità ed
originalità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese Orientali
Cattoliche Orientalium Ecclesiarum,
24]. Qualora ciò fosse avvenuto, il Concilio Vaticano II le ha esortate
a riscoprire in pieno la loro identità, avendo esse «il diritto e il
dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari, poiché si
raccomandano per veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi
dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle loro anime»
[Ibidem, 5]. Queste Chiese recano nella loro carne una drammatica
lacerazione perché è impedita ancora una totale comunione con le Chiese
orientali ortodosse, con le quali pur condividono il patrimonio dei loro
padri. Una costante e comune conversione è indispensabile perché esse
procedano risolutamente e con slancio in vista della reciproca
comprensione. E conversione è richiesta anche alla Chiesa latina, perché
rispetti e valorizzi in pieno la dignità degli Orientali ed accolga con
gratitudine i tesori spirituali di cui le Chiese orientali cattoliche
sono portatrici a vantaggio dell'intera comunione cattolica [cfr. Conc.
Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
17; Giovanni Paolo II, Discorso al Concistoro Straordinario, 13 giugno
1994]; mostri concretamente, molto più che in passato, quanto stimi e
ammiri l'Oriente cristiano e quanto essenziale consideri l'apporto di
esso perché sia pienamente vissuta l'universalità della Chiesa.
Incontrarsi, conoscersi, lavorare insieme
22. Ho vivo il desiderio che le parole che San Paolo rivolgeva
dall'Oriente ai fedeli della Chiesa di Roma risuonino oggi sulle labbra
dei cristiani d'Occidente riguardo ai loro fratelli delle Chiese
orientali: «Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo
riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in
tutto il mondo» (Rm 1,8). E subito appresso l'Apostolo delle
genti dichiarava con entusiasmo il suo proposito: «Ho un vivo desiderio
di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate
fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la
fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Ecco dunque
delineata mirabilmente la dinamica dell'incontro: la conoscenza dei
tesori di fede altrui - che ho cercato appena di tratteggiare - produce
spontaneamente lo stimolo per un nuovo e più intimo incontro tra
fratelli, che sia di vero e sincero scambio reciproco. E uno stimolo che
lo Spirito suscita costantemente nella Chiesa e che si fa più
insistente proprio nei momenti di maggiore difficoltà.
23. Sono peraltro ben cosciente che in questo momento alcune tensioni
tra la Chiesa di Roma ed alcune Chiese d'Oriente rendono più difficile
il cammino della stima reciproca in vista della comunione. Più volte
questa Sede di Roma si è sforzata di emanare direttive che favoriscano
il cammino comune di tutte le Chiese in un momento così importante per
la vita del mondo, soprattutto nell'Europa Orientale, dove eventi
storici drammatici hanno impedito spesso alle Chiese orientali, in tempi
recenti, di realizzare in pienezza il mandato dell'evangelizzazione che
pure sentivano impellente [cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi
del Continente europeo (31 maggio 1991): AAS 84 (1992), 163-168; inoltre
«Les principes généraux et normes pratiques pour coordonner
l'évangélisation et l'engagement oecuménique de l'Église catholique en
Russie et dans les autres Pays de la C.E.I.» (pubblicati dalla
Pontificia Commissione Pro Russia il 1° giugno 1992)].
Situazioni di maggiore libertà offrono loro oggi rinnovate
opportunità anche se i mezzi a loro disposizione sono limitati a causa
delle difficoltà dei Paesi ove operano. Desidero affermare con forza che
le comunità d'Occidente sono pronte a favorire in tutto - e non poche
già operano in tal senso - l'intensificazione di questo ministero di
diaconia, mettendo a disposizione di tali Chiese l'esperienza acquisita
in anni di più libero esercizio della carità. Guai a noi se l'abbondanza
dell'uno fosse causa dell'umiliazione dell'altro o di sterili e
scandalose competizioni. Da parte loro le comunità d'Occidente si
faranno un dovere anzitutto di condividere, ove possibile, progetti di
servizio con i fratelli delle Chiese d'Oriente o di contribuire alla
realizzazione di quanto esse intraprendono al servizio dei loro popoli e
comunque mai ostenteranno, nei territori di presenza comune, un
atteggiamento che possa apparire irrispettoso dei faticosi sforzi che le
Chiese d'Oriente intendono compiere, con tanto maggior merito quanto
più precarie sono le loro disponibilità.
Esprimere gesti di comune carità, l'una verso l'altra ed insieme
verso gli uomini che si trovano in necessità, apparirà come un atto di
immediata eloquenza. Evitare questo o addirittura testimoniare il
contrario indurrà quanti ci osservano a credere che ogni impegno di
riavvicinamento fra le Chiese nella carità è solo enunciazione astratta,
senza convinzione e senza concretezza.
Sento fondamentale il richiamo del Signore ad operare in ogni modo
perché tutti i credenti in Cristo testimonino insieme la propria fede,
soprattutto nei territori dove più consistente è la convivenza fra figli
della Chiesa cattolica - latini e orientali - e figli delle Chiese
ortodosse. Dopo il comune martirio patito per Cristo sotto l'oppressione
dei regimi atei, è giunto il momento di soffrire, se necessario, per
non venire mai meno alla testimonianza della carità tra cristiani,
perché se anche dessimo il nostro corpo per essere bruciato, ma non
avessimo la carità, a nulla servirebbe (cfr. 1Cor 13,3). Dovremo
pregare intensamente perché il Signore intenerisca le nostre menti e i
nostri cuori e ci doni la pazienza e la mitezza.
24. Credo che un modo importante per crescere nella comprensione
reciproca e nell'unità consista proprio nel migliorare la nostra
conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica già
conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché essi possano
raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia delle Chiese d'Oriente
[cfr. Congregazione per L'Educazione Cattolica, Istr. In ecclesiasticam
futurorum (3 giugno 1979), 48: En Vat 6, p. 1080]; approfondire la
conoscenza delle tradizioni spirituali dei Padri e dei Dottori
dell'Oriente cristiano [cfr. Congregazione per l'Educazione Cattolica,
Istr. Inspectis dierum (10 novembre 1989): AAS 82 (1990), 607-636];
prendere esempio dalle Chiese d'Oriente per l'inculturazione del
messaggio del Vangelo; combattere le tensioni fra Latini e Orientali e
stimolare il dialogo fra Cattolici e Ortodossi, formare in istituzioni
specializzate per l'Oriente cristiano teologi, liturgisti, storici e
canonisti che possano diffondere, a loro volta, la conoscenza delle
Chiese d'Oriente; offrire nei seminari e nelle facoltà teologiche un
insegnamento adeguato su tali materie, soprattutto per i futuri
sacerdoti [cfr. Congregazione per L'Educazione Cattolica, Lett. circ. En
égard au développement (6 gennaio 1987), 9-14: L'Osservatore Romano, 16
aprile 1987, p. 6]. Sono indicazioni sempre molto valide, sulle quali
intendo insistere con particolare forza.
25. Oltre alla conoscenza, sento molto importante la frequentazione
reciproca. Al riguardo, auspico che un'opera particolare esercitino i
monasteri, proprio per il ruolo tutto speciale che riveste la vita
monastica all'interno delle Chiese e per i molti punti che uniscono
l'esperienza monastica, e quindi la sensibilità spirituale, in Oriente e
in Occidente. Un'altra forma di incontro è costituita dall'accoglienza
di docenti e studenti ortodossi presso le Università Pontificie ed altre
istituzioni accademiche cattoliche. Continueremo a fare il possibile
perché tale accoglienza possa assumere proporzioni maggiori. Dio
benedica inoltre la nascita e lo sviluppo di luoghi destinati proprio
all'ospitalità dei nostri fratelli d'Oriente, anche in questa città di
Roma, che custodisce la memoria vivente e comune dei corifei degli
Apostoli e di tanti martiri.
E importante che le iniziative d'incontro e di scambio coinvolgano
nel modo e nelle forme più ampie le comunità ecclesiali: sappiamo ad
esempio quanto positive possano risultare iniziative di contatto tra
parrocchie, come «gemellate» per un reciproco arricchimento culturale e
spirituale, anche nell'esercizio della carità.
Giudico molto positivamente le iniziative di pellegrinaggi comuni sui
luoghi dove la santità si è espressa in modo particolare, nel ricordo
di uomini e donne che in ogni tempo hanno arricchito la Chiesa del
sacrificio della propria vita. In questa direzione sarebbe poi un atto
di grande significato il pervenire al riconoscimento comune della
santità di quei cristiani che negli ultimi decenni, in particolare nei
paesi dell'Est europeo, hanno versato il sangue per l'unica fede in
Cristo.
26. Un pensiero particolare va poi ai territori della diaspora dove
vivono, in ambito a maggioranza latina, molti fedeli delle Chiese
orientali che hanno lasciato le loro terre d'origine. Questi luoghi,
dove più facile è il contatto sereno all'interno di una società
pluralistica, potrebbero essere l'ambiente ideale per migliorare e
intensificare la collaborazione fra le Chiese nella formazione dei
futuri sacerdoti, nei progetti pastorali e caritativi, anche a vantaggio
delle terre d'origine degli Orientali.
Agli Ordinari latini di quei Paesi raccomando in modo particolare lo
studio attento, la piena comprensione e la fedele applicazione dei
principi enunciati da questa Sede sulla collaborazione ecumenica [cfr.
Pont. Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, Directoire
pour l'application des principes et des normes sur l'Oecumenisme, V: AAS
85 (1993), 1096-1119] e sulla cura pastorale dei fedeli delle Chiese
orientali cattoliche, soprattutto quando costoro sono sprovvisti di una
propria Gerarchia.
Invito i Gerarchi e il clero orientale cattolico a collaborare
strettamente con gli Ordinari latini per una pastorale efficace che non
sia frammentaria, soprattutto quando la loro giurisdizione si estende su
territori molto vasti ove l'assenza di collaborazione significa, in
effetti, l'isolamento. I Gerarchi orientali cattolici non trascureranno
alcun mezzo per favorire un clima di fraternità, di stima sincera e
reciproca, e di collaborazione con i loro fratelli delle Chiese alle
quali non ci unisce ancora una comunione piena, in particolare verso
coloro che appartengono alla medesima tradizione ecclesiale.
Laddove in Occidente non vi fossero sacerdoti orientali per assistere
i fedeli delle Chiese orientali cattoliche, gli Ordinari latini ed i
loro collaboratori operino perché cresca in quei fedeli la coscienza e
la conoscenza della propria tradizione, ed essi siano chiamati a
cooperare attivamente, con il loro apporto specifico, alla crescita
della comunità cristiana.
27. Con riferimento al monachesimo, in considerazione della sua
importanza nel cristianesimo d'Oriente, desideriamo che esso rifiorisca
nelle Chiese orientali cattoliche e siano incoraggiati quanti si sentono
chiamati a operare per questo rafforzamento [cfr. Messaggio del Sinodo
Generale Ordinario dei Vescovi, VII: «Appello alle Religiose e Religiosi
delle Chiese Orientali» (27 ottobre 1994): L 'Osservatore Romano, 29
ottobre 1994, p.7]. Esiste infatti un intrinseco legame fra la preghiera
liturgica, la tradizione spirituale e la vita monastica in Oriente.
Proprio per questo, anche per loro una ripresa ben formata e motivata
della vita monastica potrebbe significare una vera fioritura ecclesiale.
Ne si dovrà pensare che ciò diminuisca l'efficacia del ministero
pastorale, che anzi uscirà corroborata da una così robusta spiritualità e
ritroverà in tal modo la sua collocazione ideale. Tale auspicio
riguarda anche i territori della diaspora orientale, ove la presenza di
monasteri orientali darebbe maggiore solidità alle Chiese orientali in
quei Paesi, offrendo inoltre un prezioso apporto alla vita religiosa dei
cristiani d'Occidente.
Camminare insieme verso l'«Orientale Lumen»
28. Nel concludere questa Lettera il mio pensiero va ai diletti
fratelli i Patriarchi, i Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi, i Monaci e le
Monache, gli uomini e le donne delle Chiese d'Oriente.
Sulla soglia del terzo millennio noi tutti sentiamo giungere alle
nostre Sedi il grido degli uomini, schiacciati dal peso di minacce gravi
eppure forse persino a loro insaputa, desiderosi di conoscere la storia
d'amore voluta da Dio. Quegli uomini sentono che un raggio di luce, se
accolto, può ancora disperdere le tenebre dall'orizzonte della tenerezza
del Padre.
Maria, «Madre dell'astro che non tramonta» [Horologion, Inno
Akathistos alla Santissima Madre di Dio, Ikos 5], «aurora del mistico
giorno» [Ibidem], «oriente del Sole di gloria» [Horologion, Compieta
della domenica (1° tono) nella liturgia bizantina], ci addita
l'Orientale Lumen.
Da Oriente ogni giorno torna a sorgere il sole della speranza, la
luce che restituisce al genere umano la sua esistenza. Da Oriente,
secondo una bella immagine, tornerà il nostro Salvatore (cfr. Mt 24,27).
Gli uomini e le donne d'Oriente sono per noi segno del Signore che
torna. Noi non possiamo dimenticarli, non solo perché li amiamo come
fratelli e sorelle, redenti dallo stesso Signore, ma anche perché la
nostalgia santa dei secoli vissuti nella piena comunione della fede e
della carità ci urge, ci grida i nostri peccati, le nostre reciproche
incomprensioni: noi abbiamo privato il mondo di una testimonianza comune
che, forse avrebbe potuto evitare tanti drammi se non addirittura
cambiare il senso della storia.
Noi sentiamo con dolore di non potere ancora partecipare alla
medesima Eucaristia. Ora che il millennio si chiude e il nostro sguardo è
tutto rivolto al Sole che sorge, li ritroviamo con gratitudine sul
percorso del nostro sguardo e del nostro cuore.
L'eco del Vangelo, parola che non delude, continua a risuonare con
forza, indebolita solo dalla nostra separazione: Cristo grida, ma l'uomo
stenta a sentire la sua voce perché noi non riusciamo a trasmettere
parole unanimi. Ascoltiamo insieme l'invocazione degli uomini che
vogliono udire intera la Parola di Dio. Le parole dell'Occidente hanno
bisogno delle parole dell'Oriente perché la Parola di Dio manifesti
sempre meglio le sue insondabili ricchezze. Le nostre parole si
incontreranno per sempre nella Gerusalemme del cielo, ma invochiamo e
vogliamo che quell'incontro sia anticipato nella Santa Chiesa che ancora
cammina verso la pienezza del Regno.
Voglia Dio far breve il tempo e lo spazio. Presto, molto presto
Cristo, l'Orientale Lumen, ci conceda di scoprire che in realtà,
nonostante tanti secoli di lontananza, eravamo vicinissimi, perché
insieme, forse senza saperlo, camminavamo verso l'unico Signore, e
quindi gli uni verso gli altri.
L'uomo del terzo millennio possa godere di questa scoperta,
finalmente raggiunto da una parola concorde e per questo pienamente
credibile, proclamata da fratelli che si amano e si ringraziano per le
ricchezze che reciprocamente si donano. E così noi ci presenteremo a Dio
con le mani pure della riconciliazione e gli uomini del mondo avranno
una solida ragione in più per credere e per sperare.
Con questi voti imparto a tutti la mia Benedizione.
Dal Vaticano, il 2 maggio, memoria di S. Atanasio, Vescovo e Dottore della Chiesa, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato.
http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1995/documents/hf_jp-ii_apl_19950502_orientale-lumen.html
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-05/giovanni-paolo-ii-oriente-cristiano-centenario-congregazione.html
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